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American Horror Story 7 “Cult”, in onda in Italia dal 6 ottobre 2017 prende avvio dall’elezione di Donald Trump. Una riflessione sulle prime puntate. ATTENZIONE SPOILER.

64180_pplImmaginate l’uragano Donald Trump e la forza con cui la sua elezione si è abbattuta sulle coscienze di milioni di progressisti americani, passati in un batter d’occhio dal sentirsi cittadini di un’ America pluralista e aperta a essere gli inquilini scomodi di un Paese in corsa verso un’epoca buia. Questo è l’incubo generativo della settima stagione di American Horror Story (in Italia dal 6 ottobre su Sky): lo show ideato da Ryan Murphy e Brad Falchuk, ha abituato il pubblico affezionato alla narrazione delle ossessioni e delle fobie innestando i plot di ogni stagione all’interno di una location specifica; ogni storia si innervava in uno spazio ben preciso che non non era semplice ambientazione ma luogo drammaturgico, come d’altronde accade nella migliore tradizione horror, dove case, cimiteri, chiese e ospedali diventano luoghi di morte e violenza.american-horror-story-7-recensione-2 In questo senso AHS ha avuto in sei stagioni il merito di radicalizzare questa riflessione sui luoghi della narrativa horror lavorando ai fianchi del genere esaltandone gli stereotipi, sondandone i confini spesso con grande ironia. Una vecchia casa colonica, un ospedale psichiatrico, una scuola per giovani streghe, un circo da freak show, un vecchio hotel, fino alla sesta stagione quando il perimetro classico già si apriva a uno spazio meno tradizionale, il set di una docufiction che raccontava recenti fatti di sangue con i veri protagonisti, in una narrazione ricorsiva e metalinguistica forse non sempre efficace.

Nella settima serie, dal titolo Cult, lo scarto è decisivo, il luogo drammaturgico designato è la mente. Anzi, per dirla meglio, è tutto il nostro presente che pulsa alle tempie di Allison, protagonista incarnata da Sarah Paulson. american-horror-story-cult-7Altra caratteristica fondamentale di AHS è la scansione cast-plot: se ogni stagione è narrativamente autonoma la produzione tende invece a tenere alcune pedine attoriali ferme, a dirla tutta questo accadeva molto meglio nelle prime stagioni quando un altro mostro sacro come Jessica Lange si aggirava in tutte le sceneggiature; come fosse una compagnia teatrale alle prese con una nuova produzione il cast di AHS accoglieva il pubblico ogni volta con una storia diversa e i telespettatori potevano così non solo affezionarsi e scoprire le capacità di ogni interprete, ma guardare verticalmente attraverso e attorno ai ruoli, come se in filigrana potesse sempre rimanere qualcosa dell’interpretazione precedente.
american-horror-story-7-recensioneL’identificazione di Sarah Paulson con la serie è emblematica, così come per Evan Peters, il quale ci ha abituato a incarnare proprio quella devozione tutta americana per il trasformismo attoriale – tra le sue migliori creazioni rimane il folle dottore serial killer di primo Novecento che abitava l’Hotel Cortez. Sono Paulson e Peters i poli magnetici della narrazione di Cult. La prima veste i panni di una donna che combatte contro le proprie fobie, in analisi da un tempo imprecisato, non sopporta la vista di clown, oggetti porosi e altre amenità apparentemente innocue; quando Hillary Clinton perde la sfida politica crollano le sue difese, il mondo comincia a terrorizzarla, i repentini cambiamenti sociali sono come una scarica elettrica per la sua stabilità emotiva. Vede a rischio il matrimonio, lo status di donna pacifista e progressista, i diritti acquisiti (è sposata con una compagna con cui condivide il business di un ristorante ben avviato).

Qui sta la ridefinizione del genere, un colpo di coda autoriale tra i più interessanti degli ultimi tempi: sono le macro contingenze del reale ad aprire una falla nel pacifico presente della cittadina americana, quasi si creasse una faglia drammaturgica dalla quale personaggi maledetti e assassini fuoriescono mietendo vittime nel vicinato della protagonista. Una gang di spietati mascherati lascia uno smile insanguinato sulla casa delle proprie vittime: ma qual è il legame tra i violenti pagliacci punk e la figura del ragazzo dai capelli blu, Kai Anderson (Evan Peters) fan ossessivo di Trump e di una visione del futuro a stelle e strisce tutta virata verso la destra più estrema?

american-horror-story-7-recensione-1L’agenda politica che interferisce nella tranquillità dei personaggi, dando il là allo scoppio di una serie di imprevedibili nevrosi nella donna e nel figlio, influisce anche nella percezione relazionale: Allison incontra solo supporter del nuovo presidente con cui guardarsi in cagnesco – i nuovi vicini di casa sono un esempio (straniante e ironico), come la scena magistrale all’interno del supermarket nel quale la gang di assassini mascherati tiene in scacco la donna.
Come sempre accade in AHS il corpo a corpo è anche con gli spettatori, con la nostra percezione e soglia di attenzione: gli autori sanno quando rallentare e dedicare un intero episodio a scavare nelle ellissi precedentemente nascoste. Lentamente la scrittura ci mette nella condizione di poter sciogliere alcuni nodi, di connettere (magari anche a vuoto) situazioni, personaggi e moventi. Emerge la figura di Kai Anderson, che dietro la sua faccia ingenua acqua e sapone fa emergere una progettualità terroristica totalizzante. Come un pifferaio magico attrae tutti gli altri personaggi nella sua rete, manipola le coscienze, stringe patti di (e nel) sangue, promette il potere e la conquista del mondo. Di Trump non è un semplice sostenitore ma vorrebbe esserne il successore. È lui a svelare in una battuta il vero volto dell’opera, racconto televisivo in cui il genere horror è il dispositivo di innesco, ma le finalità sono rappresentate da questioni ben più profonde: «To live is to suffer and to suffer is to find some meaning in that suffering».


Andrea Pocosgnich

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